[Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2008]
Si apprezza subito la chiarezza: di stile e di struttura ma, soprattutto, di definizione e di scelte. Discutere di romanzo significa essenzialmente riferirsi al concetto di “civiltà romanzesca”, intendendo dunque una forma di esperienza estetica che esiste solo da quando si è instaurata una relazione dialogica effettiva tra lo scrittore e il pubblico dei suoi lettori. Ne discendono due idee forti, che la trattazione via via stringe e perfeziona, declinando gli studi classici di teoria del romanzo sulla sociologia e la narratologia.
Punto primo: il romanzo è il genere centrale della modernità letteraria, perché proprio la categoria di patto narrativo è rivelatoria di una consapevolezza autoriale che è la radice più vera e originale della prosa moderna. Questa tensione è impensabile al di fuori della nuova dialettica scrittura/lettura – all’altezza dei Promessi sposi è impensabile anche al di fuori di un certo spazio, cioè Milano: l’unica città della penisola, dove esista «una specie di opinione pubblica» (Di Breme, 1816, p. 103).
Punto secondo: l’epoca matura di questo processo è, almeno in Italia, quella in cui effettivamente prendono fisionomia le strutture della modernità, ovvero l’Ottocento. Di conseguenza, e con deliberata nettezza, da un lato cade la confusione terminologica tra il patto narrativo e l’«apostrofe» o l’«appello» della retorica canonica, che presuppongono una postura oratoria piuttosto che negoziale del discorso; dall’altro lato, il libro esautora ogni uso – ormai sempre più di moda – della parola romanzo come etichetta passepartout applicabile indistintamente a ogni secolo.
Così, per esempio, recuperando il passaggio della Vita alfieriana in cui si ricorda (all’Epoca seconda dell’adolescenza) «la lettura di molti romanzi francesi (ché degli italiani leggibili non ve n’è», l’autrice aggiunge: «come non dargli ancor oggi ragione?» (p. 66). «Proprio la “riduzione” al basso dell’impegno fruitivo – si spiega più oltre commentando i successi dei libri di Chiari – confina le opere dell’abate nella zona periferica della Trivialliteratur, determinandone il fulmineo oscuramento» (p. 73). Costruito come una morfologia storica del patto narrativo, il volume è composto di nove capitoli: il primo dal taglio teorico-metodologico e i successivi organizzati diacronicamente. Il diciannovesimo secolo è il baricentro del lavoro. Si inizia commentando la famosa Prefazione di Tom Jones (1749) e si conclude con gli Scapigliati.
Attraverso il rimando alla situazione europea – i dati sull’arrivo e la ricezione di Scott (pp. 114-119) sono ricchissimi di spunti – si riprendono le vicende italiane dei testi di consumo settecenteschi e della narrativa di Foscolo – esperienze ancora «ai margini» o «sulla soglia »; la Leserevolution di Manzoni (che «inaugura il patto di finzionalità istitutivo del sistema letterario della modernità»: p. 140), e poi, dopo il «furore» dei romanzi storici, Tommaseo, Rovani, Nievo, Verga – ma soltanto l’autore di Eva. Proprio studiando la ricezione come corsia preferenziale di accesso alle strategie enunciative delle opere, Il patto narrativo aiuta a guardare ai testi intendendoli come fictional worlds. E così si affronta meglio anche il timore che la dimensione fruitiva del letterario possa rischiare, se assunta esclusivamente, di schiacciare le opere sui dispositivi della risposta estetica e sul livello della readership.
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